Renato De Simone
“ Ricordo la prima volta che sono “sceso” dal palcoscenico dopo la mia unica scena dello spettacolo: dovevo risalire. Ne avevo proprio bisogno. ”
Raccontaci la tua prima volta su un palcoscenico e la tua prima volta davanti ad una macchina da presa
Oddio! Devo ammettere che la prima volta sul palcoscenico non la ricordo. Forse perché interpretavo Gesù Bambino e avevo solo qualche mese. Ricordo di più la prima volta che sono “sceso” dal palcoscenico dopo la mia unica scena dello spettacolo: dovevo risalire. Ne avevo proprio bisogno. Con la macchina da presa è stato totalmente diverso. Un disagio indescrivibile. Sapevo solo una cosa: di non dover guardare in macchina. Forse era la scusa per giustificare il mio disagio. Mi ripetevo di continuo “meno fai meglio è” ma non lo capivo davvero! A fine giornata pensai addirittura “non lo farò mai più”. Poi fortunatamente le cose sono andate diversamente.
Un pregio che ti ostacola e un difetto che ti aiuta.
Come pregi direi un eccessivo perfezionismo, che a volte sfocia in una poco lucida ossessione, e poi credo di avere un grande senso del giusto che mi ostacola non poco. Come difetti, invece, una massiccia testardaggine e anche una moderata diffidenza.
Se non fossi nato a Napoli avresti fatto comunque l’attore?
Dovrei chiederlo a mio padre, è stato lui a trasmettermi questa passione. Mi verrebbe da dire sì, credo che lo avrei fatto lo stesso. È innegabile che la ricca e lunga tradizione teatrale napoletana può aver avuto la sua influenza ma non credo che abbia determinato la scelta.
Se dovessi scegliere un aggettivo per definire il personaggio di Alfonso Carracci quale utilizzeresti e perché?
Flessuoso. La sua storia è stata così: un continuo flettersi, incurvarsi in base a quelle che erano le decisioni degli altri, in base agli eventi, in base a ciò che gli veniva fatto. Fino a spezzarsi.
Cosa ha significato per te la sua storia?
Mi ha fatto pensare che c’è ancora tanto da fare, che oggi continuiamo ad ascoltarci poco mentre continuiamo a parlare di accettazione dell’altro. E parlo in generale. Per molti la propria essenza è una colpa. C’è qualcosa che non va.
Da un punto di vista professionale cosa ha significato per te partecipare alla stagione finale di una delle serie più apprezzate a livello internazionale da critica e pubblico degli ultimi dieci anni?
Pensa che conservo ancora l’ultima e-mail della casting in cui mi comunicavano che ero stato scelto per Alfonso! La grandezza del progetto, sotto tantissimi punti di vista, è innegabile. Ed è innegabile la risonanza mediatica. Ammetto però di averci pensato davvero poco. Quasi non mi interessa e so che forse sbaglio ma per me è importante ogni volta ricominciare da zero e pensare solo ed esclusivamente al lavoro, qualsiasi cosa essa sia. Per me era importante essere ma soprattutto imparare: ero affascinato dal modo in cui Alba usava la macchina da presa e cercavo di carpire più elementi possibili, facevo lo stesso osservando il lavoro di Fabrizio Gifuni. Questo mi interessa, migliorarmi. Sono consapevole del fatto che tutto ha un inizio e inevitabilmente una fine ed è fortunatamente una consapevolezza che ho acquisito da molto tempo. La continuità non te la regala nessuno.
Quanto è labile secondo te il confine fra l’anima dell’attore e del personaggio? E che rischio c’è di rimanere intrappolati in un limbo in cui il presente del personaggio fagocita il presente dell’attore?
Personalmente se non parlo di me attraverso gli altri, credo che non potrei proprio fare questo mestiere. Mi spiego: ho di fronte un personaggio che avrà i suoi tic, la sua cadenza, il suo linguaggio, la sua fisicità, i suoi rapporti, il suo vissuto. Tutto questo accompagnato dalle sue parole. Parole che io devo sostenere, e le sostengo con il mio vissuto. E se non ho quel vissuto, cerco qualcosa nella mia vita che possa avvicinarsi. E mi ci immergo totalmente filtrandolo attraverso quelle parole. Questo è il lavoro che l’io attore fa sull’io personaggio. Nello stesso tempo l’io attore deve avere il controllo. Il confine è più che labile ma il rischio di rimanere intrappolati deve essere evitato. Per farti un esempio: con Alfonso decisi di perdere peso. Arrivai quasi a 69 kg. Andavo in giro esercitandomi nella sua camminata, oppure quando uscivo con amici o altro, provavo a fumare come avrebbe fumato lui, a stare seduto come lui, a osservare le persone come le avrebbe osservate lui. Questo appartiene alla ricerca. Alla fase delle prove. Poi bisogna lasciare andare inevitabilmente.
Cos’è per te la moda e che ruolo gioca nella tua vita?
Domanda complicatissima. Se per moda intendiamo il seguire, come comunità, il gusto del momento, da buon bastian contrario allora la rifiuto. Se invece ci riferiamo alla mondo dell’abbigliamento, ne so davvero poco. Mi affascina tanto un po’ come tutto ciò che non conosco. La "mia" moda forse la sto ancora cercando.
Se potessi recitare una sola emozione per il resto della vita quale sarebbe?
Forse la noia. Nonostante sia, credo, la più praticata nel mondo, penso sia anche la più difficile da replicare. È quella con più sfumature.
Un libro che porteresti sempre con te?
La Cantina di Thomas Bernard ma troverai lo spazio anche per Candido di Voltaire.
Written by M.Cristina De Rosa
Lensed by Mia Di Domenico
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